Il colpo di scena
Il rapinatore-pentito: «I colpi solo dopo il nulla osta dello sciamano»
Operazione Khalipha: uno degli indagati ha deciso di collaborare con i pm. La banda è quella che ha minacciato un imprenditore di rapire la figlia e di tagliargli un dito
Un colpo di scena durante le udienze del Riesame scaturite dai ricorsi dei difensori degli indagati dell’operazione Khalipha, che ha fatto scattare le manette a una banda di rapinatori che metteva a segno colpi con tanto di sequestro delle vittime. Il caso più agghiacciante è quello che ha fatto partire le indagini dei carabinieri della compagnia di Fontanarossa: i banditi si sono travestiti da finti finanzieri e hanno svuotato le casseforti di un imprenditore arraffando soldi e gioielli. La vittima è stata anche torturata davanti alla figlia poco più che neonata: con la minaccia addirittura di rapirla e venderla a dei trafficanti di esseri umani.
Uno degli arrestati ha deciso di collaborare con la magistratura. Il pm Rocco Liguori ha depositato nel fascicolo del Tribunale della Libertà il verbale pieno di omissis che blinda ancor di più l’apparato probatorio dell’inchiesta. «Devo premettere che ogni nostra azione doveva essere preceduta dal nulla osta di Khalipha Casse», ha detto a un certo punto agli investigatori il rapinatore-pentito. Quello citato è il tunisino che avrebbe millantato poteri esoterici da sciamano. E che avrebbe totalmente soggiogato i componenti del gruppo criminale, capeggiato secondo l’accusa dal rampollo dei Laudani, Alberto Caruso (va ricordato che non c’è contestazione mafiosa, nemmeno a livello di aggravante). «I contatti» con lo sciamano «li teneva - ha spiegato l’indagato - Alessandro Sapiente». Casse «chiamava suo zio in Africa» e quest’ultimo «diceva se» la vittima predestinata «avesse soldi». E inoltre il parente avrebbe rassicurato sulla «protezione» magico-esoterica della banda. Il rito, considerando l’epilogo, non ha proprio funzionato.
Ma torniamo ai racconti dell’indagato, che ha anche spiegato la pianificazione del colpo all’imprenditore «monitorato per molto tempo». Quando i rapinatori hanno avuto la certezza che l’uomo fosse in casa sono entrati in azione. Si sono incontrati e hanno «preso pettorine e berretti della guardia di finanza». Tre indagati invece si sarebbero occupati delle pistole. I banditi erano convinti che nella villa ci fossero settecendo mila euro. Quindi, quando, hanno trovato solo 10mila euro hanno cominciato a picchiare e intimidire l’uomo. A un certo punto la cesoia portata per rompere lucchetti e catenacci è servita per terrorizzare in modo “medievale” la vittima: «se non parli ti tagliamo un dito». Ma anche davanti a questo l’imprenditore pare aver resistito, invece dopo la minaccia «alla figlia ha accompagnato» tre della banda «nell’altra abitazione e hanno recuperato, secondo quanto riferito, 100.000 euro». C’è anche il dettaglio, nei verbali depositati, della spartizione dei soldi. Poche migliaia di euro a testa. E poi la divisione dei frutti (ma non per tutti) della vendita nel mercato nero degli orologi depredati.
Rimangono top secret le dichiarazioni sulle altre rapine su cui ancora si sta indagando. Un colpo programmato è saltato. «Uno degli obiettivi era un soggetto di Acireale» che avrebbe trafficato in droga e avrebbe avuto molti contanti a casa. Ma ci sarebbe stato un contrattempo: «L’uomo è stato monitorato ma poi la rapina non si è fatta perché il soggetto era seguito dalle forze dell’ordine».