Perchè Sì
Riforma Giustizia, Trantino: «Un dibattito solo ideologico l’impianto segue Falcone»
L’avvocato Enrico Trantino, penalista catanese, è uno dei 40 fondatori del Comitato “Sì Separa” presieduto da Gian Domenico Caiazza: «Il nuovo Csm azzera il potere delle correnti»
Enrico Trantino, penalista e sindaco di Catania è uno dei 40 fondatori del Comitato “Sì Separa” presieduto da Gian Domenico Caiazza.
Alcuni ritengono che il nuovo Csm è la vera cifra della riforma. Tutti si concentrano sulla separazione delle carriere. Ma la novità sta nei nuovi organi di autogoverno liberati dalle correnti: queste ultime quanto hanno inciso su promozioni e trasferimenti?
«Mi sembra ingenuo pensare che per i ruoli più contesi siano mai stati valutati i meriti e non l’appartenenza alle correnti. Lo dico, non in base a qualunquistiche considerazioni, ma per almeno due motivi: a prescindere da quanto detto da Palamara sulle carriere e le scelte del Consiglio Superiore basate sui traffici correntizi, la proposta del sorteggio nasce da stimati magistrati che hanno denunciato come l’attuale assetto del Csm abbia inciso negativamente sul suo funzionamento, trasformandolo da organo imparziale e tecnico in assemblea politica. Quel che mi lascia molto perplesso è proprio l’ostilità di tanti magistrati - per la quasi totalità schierati all’interno di correnti - per la proposta di sorteggio. Considerato che gli eletti saranno comunque loro colleghi che riflettono le diverse professionalità dei magistrati (inquirenti, giudicanti, di legittimità), qual è il motivo di temere che chiunque di loro possa rappresentarli? Se sono titolati a svolgere indagini, emettere sentenze, decidere i destini di tanti individui, perché non dovrebbero essere in grado di esercitare i compiti attribuiti al Consiglio dalla nostra Carta costituzionale?».
La separazione delle carriere dopo la riforma Vassalli ha ancora senso? Se sì, a suo giudizio, perché chi ieri era favorevole oggi sembra aver dimenticato le posizioni di allora?
«Io non credo che la separazione delle carriere sia la soluzione di tutti i problemi. Bisognerebbe aprire un confronto più coraggioso sulla cultura della giurisdizione, cominciando a pensare a una formazione comune che valga per tutti i soggetti del processo, avvocati compresi. Ma intanto la riforma oggi in discussione è un primo, indispensabile passo per adeguarci a quanto stabilito dall’articolo 111 della Costituzione. Non è solo lo spirito di colleganza che mina il valore dell’imparzialità; ma anche una prassi che, fino alla sentenza, risente di frequenti assestamenti sulle tesi proposte dai pubblici ministeri. La verità è che il dibattito è intriso di asperità ideologiche. Chi oggi si oppone alla riforma non ricorda mai che uno dei principali fautori della separazione delle carriere era Giovanni Falcone e che essa è prevista dagli ordinamenti di tutte le democrazie occidentali».
Il fronte del “no” sostiene che questa riforma rende il potere giudiziario molto più debole, rischiando di asservirlo al potere politico.
«L’obiezione sarebbe degna di considerazione se di fronte al testo licenziato dal Parlamento qualcuno trovasse una sola virgola che dia alla politica anche un “milligrammo” di potere in più sui magistrati. Semmai, la riforma è voluta per arginare il debordante potere spesso acquisito da alcune procure. Le vie della giustizia italiana sono lastricate di migliaia di vittime innocenti, che si sono ritrovate a subire processi ingiusti, linciaggi morali, interruzioni di carriere e devastazioni esistenziali, loro malgrado. Il cittadino ha bisogno di sapere che la sua sorte è affidata a un giudice più terzo e imparziale, i cui meriti vengano valutati in modo più trasparente e che risponda realmente del suo operato».
Mi consenta una domanda romantica. Cosa ne penserebbe Enzo Trantino?
«Mio padre era d’accordo, ma senza particolare coinvolgimento. Solo perché apparteneva a una stagione del diritto in cui l’esito dei processi era affidato a donne e uomini che si erano formati su un modo di intendere il ruolo come una sintesi tra sapere e coscienza. La maggior parte dei magistrati interpreta la funzione allo stesso modo di ieri. Ma sempre più emerge la sensazione che per una serie di cause concomitanti, non ultima l’enorme carico di lavoro, la funzione si sia “burocratizzata” e che l’imputato abbia smarrito la sua carica umana per trasformarsi in utente, se non numero. Quel che però lo segnò fortemente, qualche mese prima che si congedasse da questo mondo terreno, fu quanto accadde al Tribunale di Enna. Aveva iniziato da poco a discutere un processo come parte civile quando una giovane magistrato togata gli disse “avvocato si sbrighi perché ho fretta”. Ovviamente fece notare alla giudice quanto fosse stato sconveniente e per nulla deontologico quel comportamento, ma questo non conta. Quel che importa è che un tempo, ai “suoi tempi”, nessuno si sarebbe permesso, neanche con un giovane nostro collega all’esordio. Tornando a casa mi disse “non so se basti riformare le carriere. Bisognerebbe insegnare il rispetto e quanto pesante valore vi sia dietro quella toga che entrambi indossiamo».