L’inaugurazione
Il "Lohengrin" di Wagner a Roma tra luce e buio
L'opera apre la stagione del Teatro dell'Opera. A dirigerla Michieletto: fa centro in sogni, segni, segnali
Luce e buio, principi fondanti d’esistenza e di teatro. La luce d’una coppia paradisiaca, Elsa, “pura siccome un angelo” ( Verdi ci consenta il saccheggio), accusata ingiustamente d’aver ucciso il fratellino, legittimo erede nel Brabante dell’Anno Mille, e il cavaliere senza macchia, “missionario” di salvezza. Il buio di due “vilain”, il conte Telramund, assetato di potere e la moglie Ortrud, novella Lady Macbeth, in cui sensualità fa rima con malvagità. E se la luce (ri)suona in la maggiore, il buio (ri)suona in fa diesis minore.
Luce e buio, in una parola “Lohengrin” - un Wagner non ancora dannatamente wagneriano, intriso, piuttosto, di sublime italianità, tessitura musicale coinvolgente al limite dell’orecchiabile, leccornia per i melomani del Belpaese – con cui il Teatro dell’Opera di Roma ha fastosamente e festosamente inaugurato la stagione. In gioco, nell’accezione più primigenia del termine, il direttore, Michele Mariotti e il regista Damiano Michieletto, tandem di felice, conclamata complicità artistica ed intellettuale.
Un quasi dio, Lohengrin, che vorrebbe essere amato come un uomo qualunque, il divieto di domanda per lei che deve amarlo senza saper nulla di lui, principe azzurro che vien fuori dalla barchetta sul fiume guidata da un cigno. Gli empi, castigatori e castigati, lande remote e salvifiche come Montsalvat, dove il sovrano Parsifal, padre di Lohengrin, custodisce il Santo Graal. Nel sommovimento di miti tra Mediterraneo e terre del Nord, c’è una fiaba eterna, tanto antica da coniugarsi al futuro. Non lascia intendere cose diverse, Lohengrin, da “Ho visto cose che voi umani” del fantascientifico Roy Batty di “Blade runner”: il passato si fa arcaico, arretra e sconfina in un presente di là da venire.
In lucida, illuminata “obbedienza” alla musica, Michieletto fa centro in sogni, segni, segnali. Spoglia tutto da “folk” norreno e lo lascia spoglio tout court. La scena (Paolo Fantin) è una “wasted land” incantata su cui impera una sorta di gigantesco lambrì che, come Stonehenge, può essere tribunale, torri, mura; la Schelda è una tinozza da cui Elsa estrae, sconsolata, i vestitucci del fratello scomparso.
Non la barchetta ma una piccola bara da bambino, non il cigno ma l’uovo, simbolo incontestabilmente divino (dalla “Pala di Brera” di Piero della Francesca) ora moltiplicato in una biblica pioggia di “gocce” sacre, d’oro e d’argento (luci fatate di Alessandro Carletti), ora unica, misteriosa “entità” in bacheca. Stillicidio d’argento, pare scorra da un enorme lapis sul corpo di Lohengrin, rivestendolo. Indaco, grigio e tortora per i brabantini (costumi di Carla Teti), giacca e pantaloni per gli uomini, tuniche per le donne del Coro, ottimamente istruito da Ciro Visco; abiti più connotativi per i protagonisti, in testa il tailleur nero e veletta da segretaria del Terzo Reich per la perfida Ortrud.
Niente comincia e niente finisce, in Wagner, “Lohengrin” è un fluire continuo, seppure a suo modo, con pezzi che vivono di vita propria come la popolare Marcia Nuziale o i Preludi, strepitosi, violinistici ma diversi tra loro, lento il primo (il genio di Chaplin lo volle nel “Grande Dittatore” con il mappamondo), veloce, a violini “divisi”, il secondo.
Nel cast sembra svettare Ekaterina Gubanova (Ortrud), “cantattrice” con ampiezza ed ottimo controllo di fiati, non altrettanto può dirsi del “marito”, Tomas Tomasson (Telramund). Convincente più nelle impennate che nelle mezze voci il Lohengrin di Dmitry Korchak, mimesi un po’ “ingessata” per Jennifer Holloway-Elsa benché il ruolo resti d’immensa fascinazione.
Compositore e drammaturgo in una sola persona, Wagner, e per 5 ore di seguito, è cimento titanico a cui Mariotti, giustamente acclamato, risponde con concertazione calibrata, dettaglio di fraseggio, “braccio” vigile ed eloquente. Luce, buio, luce.
di Carmelita Celi